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martedì 2 giugno 2020

#STEP21-L'etica


Gli eventi culturali forniscono un contributo importante allo sviluppo economico dei territori su cui insistono; tuttavia, per quantificare l’entità e il segno positivo o negativo dell’impatto economico, è necessario seguire un iter metodologico preciso, che nelle prime fasi passa attraverso un meticoloso processo di raccolta di informazioni di carattere qualitativo e quantitativo, poiché gli eventi culturali generano impatti diversi: culturali, etici, sociali, economici, fiscali, occupazionali, ambientali, immobiliari. In questo Paese sono almeno 20 anni che si chiede di aprire i musei a tutti con gratuità di accesso, come si chiede che le risorse pubbliche destinate alla cultura raggiungano almeno l’1% del bilancio dello Stato (attualmente pari allo 0,26%). Ma non succede niente. Si sono trovati un po’ di soldi, si sono fatti enormi passi in avanti, ma la mentalità economicista con cui si rimane legati alla pratica del biglietto a pagamento persiste imperterrita. La sua radicalità è almeno pari all’incapacità di vedere nell’economia qualcosa di diverso dai soldi, come ad esempio, regole efficienti e riconoscimento del valore economico e di capitale della cultura.  Da un lato si giudica corretto far pagare un biglietto, anche a costo contenuto, per affermare il concetto che l’arte e la cultura vanno valorizzate come beni preziosi, alla cui conservazione siamo tutti chiamati a contribuire in qualche modo. Dall’altro si sostiene che un biglietto a pagamento è una barriera tra il fruitore e il museo, e che le istituzioni statali dovrebbero essere gratuite per tutti, puntando piuttosto a realizzare introiti attraverso la gestione dell’indotto, come la vendita di articoli nei bookshop, l’apertura di punti di ristoro nei musei stessi e il fatto che attirando visitatori si dia lavoro alle strutture del territorio, come gli alberghi e i ristoranti. Nei Paesi europei sono in vigore entrambe le soluzioni. In Gran Bretagna, ad esempio, i musei sono gratuiti per tutti, mentre sono a pagamento le mostre temporanee, eppure la gestione delle grandi strutture è generalmente in attivo. In Francia, si paga, invece, il biglietto, all’incirca con le stesse forme di riduzione e/o gratuità in vigore qui da noi. Come si spiega allora il fatto che tutti i musei statali italiani nel loro complesso arrivano a incassare in un anno meno di un quarto del solo Louvre? La risposta sta probabilmente in una pessima gestione globale delle nostre strutture, senza un disegno preciso e senza uniformità tra le varie regioni, a cui sono state concesse autonomie decisionali quantomeno discutibili. Esistono regioni come il Friuli, in cui tutti i musei statali presenti sono a ingresso gratuito, e altre come l’Umbria in cui sono tutti a pagamento. Ci sono anche strutture con dieci custodi, ma che hanno in media uno/due visitatori al giorno, e con un incasso annuale di  poche centinaia di euro non si possono pagare dieci stipendi, mentre a volte in musei più grandi il personale è carente. Al Ministero dei beni Culturali non è però prevista la mobilità dei dipendenti, che non possono essere trasferiti da una struttura all’altra come avviene invece in altri settori statali. La scelta di far pagare o meno i biglietti d’ingresso andrebbe, quindi, preceduta da una ben più vasta revisione della gestione economica del Ministero, con un uso migliore delle risorse umane a disposizione, l’unificazione dei criteri amministrativi tra le regioni e magari la valorizzazione di quei musei oggi quasi sconosciuti al grande pubblico, ma che spesso contengono tesori artistici di valore inestimabile.

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