Gli eventi culturali forniscono un contributo importante
allo sviluppo economico dei territori su cui insistono; tuttavia, per
quantificare l’entità e il segno positivo o negativo dell’impatto economico, è
necessario seguire un iter metodologico preciso, che nelle prime fasi passa
attraverso un meticoloso processo di raccolta di informazioni di carattere
qualitativo e quantitativo, poiché gli eventi culturali generano impatti
diversi: culturali, etici, sociali, economici, fiscali, occupazionali, ambientali,
immobiliari. In questo Paese sono almeno 20 anni che si chiede di aprire i
musei a tutti con gratuità di accesso, come si chiede che le risorse pubbliche
destinate alla cultura raggiungano almeno l’1% del bilancio dello Stato
(attualmente pari allo 0,26%). Ma non succede niente. Si sono trovati un po’ di
soldi, si sono fatti enormi passi in avanti, ma la mentalità economicista con
cui si rimane legati alla pratica del biglietto a pagamento persiste
imperterrita. La sua radicalità è almeno pari all’incapacità di vedere
nell’economia qualcosa di diverso dai soldi, come ad esempio, regole efficienti
e riconoscimento del valore economico e di capitale della cultura. Da un lato si giudica corretto far pagare un
biglietto, anche a costo contenuto, per affermare il concetto che l’arte e la
cultura vanno valorizzate come beni preziosi, alla cui conservazione siamo
tutti chiamati a contribuire in qualche modo. Dall’altro si sostiene che un
biglietto a pagamento è una barriera tra il fruitore e il museo, e che le
istituzioni statali dovrebbero essere gratuite per tutti, puntando piuttosto a
realizzare introiti attraverso la gestione dell’indotto, come la vendita di
articoli nei bookshop, l’apertura di punti di ristoro nei musei stessi e il
fatto che attirando visitatori si dia lavoro alle strutture del territorio,
come gli alberghi e i ristoranti. Nei Paesi europei sono in vigore entrambe le
soluzioni. In Gran Bretagna, ad esempio, i musei sono gratuiti per tutti,
mentre sono a pagamento le mostre temporanee, eppure la gestione delle grandi
strutture è generalmente in attivo. In Francia, si paga, invece, il biglietto,
all’incirca con le stesse forme di riduzione e/o gratuità in vigore qui da noi.
Come si spiega allora il fatto che tutti i musei statali italiani nel loro
complesso arrivano a incassare in un anno meno di un quarto del solo Louvre? La
risposta sta probabilmente in una pessima gestione globale delle nostre
strutture, senza un disegno preciso e senza uniformità tra le varie regioni, a
cui sono state concesse autonomie decisionali quantomeno discutibili. Esistono
regioni come il Friuli, in cui tutti i musei statali presenti sono a ingresso
gratuito, e altre come l’Umbria in cui sono tutti a pagamento. Ci sono anche
strutture con dieci custodi, ma che hanno in media uno/due visitatori al
giorno, e con un incasso annuale di
poche centinaia di euro non si possono pagare dieci stipendi, mentre a
volte in musei più grandi il personale è carente. Al Ministero dei beni
Culturali non è però prevista la mobilità dei dipendenti, che non possono
essere trasferiti da una struttura all’altra come avviene invece in altri settori
statali. La scelta di far pagare o meno i biglietti d’ingresso andrebbe,
quindi, preceduta da una ben più vasta revisione della gestione economica del
Ministero, con un uso migliore delle risorse umane a disposizione,
l’unificazione dei criteri amministrativi tra le regioni e magari la
valorizzazione di quei musei oggi quasi sconosciuti al grande pubblico, ma che
spesso contengono tesori artistici di valore inestimabile.
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